Una messa in scena del reale

La storia di Arrevuoto

(fino al marzo 2009)

di Roberta Carlotto

Il racconto di Arrevuoto comincia nel 2005, con uno straordinario viaggio nel teatro di centinaia di adolescenti che continua fino ad oggi grazie all’impegno del Mercadante, il Teatro Stabile di Napoli. Partimmo allora dal quartiere di Scampia – oltre 50.000 abitanti, tristemente famoso per gli edifici delle Vele, la criminalità, lo spaccio e per il disagio nei campi rom -un simbolo anche troppo forte dei problemi di Napoli e che in quell’anno era appena stato devastato da una feroce guerra di camorra. Lo spunto fu un libro di inchieste – “Napoli comincia a Scampia” edizioni l’Ancora del Mediterraneo- realizzato da un gruppo della rivista Lo Straniero, leggendo il quale io mi chiesi in che modo il teatro e, in particolare, un’istituzione pubblica come il Mercadante, potesse entrare in rapporto con una Napoli continuamente negata e tenuta separata dal resto della città. Conoscendo Goffredo Fofi, il direttore della rivista, ne parlai con lui e ne venne fuori l’idea di fondare un progetto teatrale triennale a cui presupporre la regia del Teatro delle Albe di Ravenna con la sua modalità, tra teatro ed educazione, sviluppata nel decennale percorso ravennate della non-scuola. Il passo successivo fu quello di cercare nel quartiere Scampia una rete di persone e di gruppi, rintracciandoli dal libro di inchieste, e mettendo così il Mercadante in contatto con esperienze più “anarchiche” come quella di Chi rom.. e chi no, del Centro Gridas e dei campi rom non autorizzati, ma anche con due scuole di quella periferia, il Liceo Morante e la scuola media Carlo Levi. Non è un caso che, ancora oggi, persone come Barbara Pierro, Federica Lucchesini e Maurizio Braucci che avevano curato le inchieste, siano presenti e fondamentali per il percorso del progetto.

Su uno spunto offertoci dall’allora assessore alla cultura Rachele Furfaro, si decise tuttavia che la rete su cui far nascere il progetto non fosse relegata solo alla periferia, con il rischio di una triste ghettizzazione, ma estesa ad una scuola del centro città che scegliemmo nel Liceo Genovesi. Ne venne fuori un confronto basato su differenze che però avevano la volontà di dialogare e, cosa più importante, di offrire le proprie competenze allo sviluppo di un progetto comune.  Risultato finale, dopo mesi di laboratori con una sessantina di adolescenti al limite della sperimentazione pedagogico-teatrale, fu lo spettacolo “Pace!” da Aristofane, per la regia di Marco Martinelli che ricevette poi il premio speciale Ubu per la stagione 2005-2006. Da allora sono seguiti, con le stesse scuole e con gruppi più numerosi di ragazzi, altri due anni che hanno visto la rappresentazione di un “Ubu sotto tiro” di Jarrie e di un “L’immaginario malato” da Molière. Finito nel 2008 quel fantastico triennio, pieno di soddisfazioni artistiche ed umane, ma anche di rischi ed incertezze per la complessità del progetto, ho trovato pieno appoggio negli altri collaboratori e nella nuova direzione del teatro da parte di Andrea de Rosa, alla mia volontà di continuare Arrevuoto oltre la sua programmata triennalità. Al momento in cui scrivo, infatti, si sta per concludere il quarto anno di questo entusiasmante percorso, rinnovato nella sua struttura, coinvolgendo più zone della città, con quasi 250 ragazzi impegnati in cinque diverse messe in scena, affidate alla regia dei teatranti che avevano coadiuvato Martinelli durante il triennio e fino al suo passaggio del testimone.

Già dall’inizio, il metodo a cui si è ispirato Arrevuoto è stato, come detto, la non-scuola delle Albe a Ravenna, tuttavia non in un’estensione di quella esperienza, ma piuttosto in una sua variante che ha avuto il merito di sapersi riformulare qui a Napoli, con e per i territori in cui ha agito, teatro compreso. Non posso dimenticare che Marco Martinelli, in quei tre anni, oltre ad offrirci spettacoli di grande levatura con dei non-attori, ha saputo individuare delle guide teatrali, coinvolgendole non solo in un’esperienza ma anche in un metodo singolare che, finora, non ha equivalenti nel pur ricco panorama dei palcoscenici italiani. Di questo metodo, nel confronto con altri teatri di impegno contemporanei, spicca la sua caratteristica collettiva e il disinteresse, oggi più che mai auspicabile, in un mondo che tende a commercializzare ogni cosa. A parte infatti qualche trasferta romana o ravennate, ma più esperienziale che di giro, gli spettacoli di Arrevuoto non hanno mai voluto intraprendere delle tournée, che pure ci venivano richieste, nel resto d’italia. Passione, emozione, all’interno di un preciso metodo pedagogico, mi sembrano, senza retorica, da ieri fino ad oggi gli ingredienti di Arrevuoto. In tale progetto, risolutiva è stata la scelta di creare un incontro tra centro e periferia, tra adolescenti di diversa estrazione sociale, lasciando che il confronto tra loro (di cui oggi, nel mondo, c’è più bisogno che mai) avvenisse spontaneamente e senza invasività da parte degli adulti. Ho già scritto altrove, in altri miei interventi, che in tale ambito Arrevuoto potrà lasciare traccia nel futuro della città, dal momento che alcuni di questi ragazzi, di queste generazioni, potranno domani ricoprire dei ruoli di responsabilità, civile, artistica ed intellettuale, avvalendosi di un’esperienza essenziale per la conoscenza dei diritti e dei doveri verso l’altro, oltre che dell’incommensurabile condivisione della bellezza di un percorso.

È particolarmente significativo, in tal senso, che già mentre proseguiva il cammino teatrale di Arrevuoto, fosse partito, ed è ormai in fase di conclusione, un altro impegnativo progetto, quello denominato “Punta Corsara”. Un’iniziativa, con la direzione artistica di Marco Martinelli e il sostegno della Regione Campania e della Fondazione Campania dei Festival, che da un lato ha sviluppato il discorso formativo, attraverso l’avviamento alle professioni del teatro (attori, tecnici, organizzatori etc.) di alcuni giovani rivelatisi all’interno di Arrevuoto, e dall’altro si è posto l’obiettivo di fare dell’Auditorium di Scampia una sede stabile che, in prospettiva, potrebbe essere gestita dagli stessi ragazzi avvicinatisi al mondo del teatro proprio partecipando ai laboratori e agli spettacoli del nostro progetto che da quattro anni mette in comunicazione, a partire da Scampia, diversi quartieri della città.

Durante questi anni di Arrevuoto, credo sia stato compreso dal pubblico e dalla critica la finalità di cercare un rapporto nuovo tra teatro e società, a partire da una città in cui le urgenze, in questa sua fase storica, sono non solo estese ma anche rappresentative dell’intera società italiana. Che questa comprensione sia avvenuta “contemplando la scena”, senza bisogno di lasciarsi spiegare il processo laboratoriale e pedagogico che sottostà agli spettacoli, è indice di un altro grande risultato: che Arrevuoto è rimasto e rimarrà Teatro.

Lo stesso Mercadante, che io dopo Ninni Cutaia ho diretto nel 2007 e nel 2008, si è arricchito di  questa esperienza grazie alla sua capacità di essersi saputo collegare con la cittadinanza, attraverso la sperimentazione di nuovi linguaggi e rafforzando quel tema dell’identità che per ogni Stabile è sempre una spina nel fianco. Se cerco di spiegarmi come ciò sia avvenuto, non è tanto nei meccanismi teatrali che trovo una risposta, quanto in quelli che riguardano una certa tensione sociale esistente tra il gruppo di lavoro di Arrevuoto. Non posso pensare, allora, come una coincidenza il fatto che io, che a 18 anni ero in Sicilia con quel Danilo Dolci grazie al quale conobbi Goffredo Fofi, abbia poi rincontrato Goffredo nel 2005 per parlare con lui di un progetto come Arrevuoto. Né, tanto meno, posso sottovalutare che lo staff del Mercadante e in particolare Marzia D’Alesio, che ha seguito passo passo il progetto, pur provenendo da esperienze di organizzazione teatrale, abbiano alle spalle dei percorsi di impegno politico e sociale. Lo stesso posso dire delle guide teatrali – e mi perdoneranno se qui non ne cito la lunga lista di nomi- in cui pure è forte una tensione verso la società, già a partire da esperienze individuali, siano esse per la Palestina, per i detenuti o per i centri sociali. Mi sembra quindi di poter dire che Arrevuoto ha avuto la capacità di ricongiungere tutte queste persone intorno ad un progetto teatrale che tenta di contribuire al cambiamento della società in cui viviamo. Ma è ancora tutto in corso, mentre si va concludendo il quarto anno, di espansione e rilancio, di questo progetto che vorremmo sempre più intento a tessere fili di relazioni ed esperienze comunemente ritenute improbabili, ma che per la loro stessa improbabilità, cifra irrinunciabile del teatro presente, hanno portato in scena il gioco e l’arte con un impeto efficacemente civile.

marzo 2009