La lingua della madre

La lingua di Arrevuoto

Incontro con il poeta Salvatore Palomba

a cura di Maurizio Braucci

Cosa pensi delle tante questioni sulla forma scritta della lingua napoletana?

Saranno venti o trent’anni che la lingua napoletana non viene quasi più  letta, i giornali non pubblicano più testi in dialetto, i testi delle canzoni non vengono più diffusi attraverso “i canzonieri”, ma vengono pubblicati  – – e solo in qualche caso –– all’interno dei CD . L’unico modo per imparare a scrivere in napoletano resta quindi la lettura di libri di poesia dialettale, ma tra i giovani non c’è sufficiente interesse. I testi in napoletano sono spariti dalle antologie scolastiche e, salvo rare eccezioni, la scuola non fa nulla per insegnare Di Giacomo e Viviani. Così, nessuno sa più scrivere il dialetto e di quella che si chiama “grafia storica” , utilizzata più o meno da tutti gli scrittori in napoletano nell’ultimo secolo, rischia di non rimanere più traccia.
Ognuno scrive a modo suo e il napoletano diventa incomprensibile, perché è una lingua che si parla in un modo e si scrive in un altro e se non ci sono dei canoni condivisi diventa difficile da decifrare.
Vedo anche nelle insegne scritte in napoletano errori ridicoli.
Certo, anche i grandi autori del passato, i Di Giacomo, Russo, Bovio, Viviani non usavano tutti precisamente la stessa grafia, perché il dialetto non ha regole precise, ma c’era una larga base comune a cui fare riferimento.
I giovani, come ho già detto, non leggono quasi più la lingua napoletana e anche nelle nuove canzoni non ci sono quasi più testi scritti in un napoletano decente.

Ma il dialetto ha avuto anche enormi evoluzioni, continui cambiamenti. In che modo secondo te?

Certo che il linguaggio si è evoluto, questo posso spiegartelo bene perché l’ho studiato oltre che vissuto. Mio padre da giovane era stato cantante e attore, anche nella compagnia di Luisella Viviani, e aveva trasmesso a noi figli la passione per le canzoni, la poesia e il teatro napoletano. Quindi io ho succhiato il napoletano con il latte, per quanto riguarda la poesia, si dice che una lingua ti sceglie e io sono stato scelto dal napoletano , che è stato prevalentemente la mia lingua materna.
Però, pur sapendolo scrivere bene, per mia scelta ho sempre tenuto conto dell’evoluzione del dialetto che, essendo una lingua parlata, cambia da persona a persona e da un periodo storico ad un altro.
Oggi la lingua napoletana si va perdendo, un motivo è la sua forte italianizzazione: per indicare una bambola mio nonno ancora diceva ‘a pupatella mentre nella parlata dei vicoli ‘a bambulella, oppure ‘o garuofano si trasformava già in ‘o garofano. È. E’ una tendenza radicata ma che ormai è diventata prevalente e che ci sta portando ad un riassorbimento del dialetto nella lingua nazionale. Oggi, si parla una strana commistione tra i due idiomi, dovuta al fatto che alla fonte della lingua parlata in famiglia si è aggiunta quella della televisione. Ma lo stesso vicolo è diventato più un condominio, con meno comunanza e confronti linguistici tra le persone, dove ognuno impara il dialetto a modo suo e quindi con più frammentazione e povertà di vocaboli. D’altra parte, anche le canzoni veicolano poco il dialetto, i suoi cantanti moderni –- non mi piace chiamarli neomelodici –- attingono molto più dalla televisione che dalla strada. Quindi oggi il dialetto prende dal piccolo contesto locale e dal grande contesto nazionale, se senti parlare i ragazzi di oggi ti accorgi che usano un mezzo italiano unito ad un mezzo napoletano, chiaramente sono quelli che non hanno un grande feeling con la scuola e che quindi non la tengono come riferimento. Si tratta di una fase molto particolare che secondo me prelude alla fine del dialetto.
Inoltre, esiste un fenomeno molto importante che è invece di carattere sociale. Il dialetto per le persone che si vogliono emancipare rappresenta una specie di ghettizzazione. In un vicolo di Napoli io ho sentito una madre dire a sua figlia: «Debora, parla bene a mammà !» quella stava parlando napoletano non è che dicesse parolacce, ma la madre la rimproverava . Personalmente io trovo scandalose certe parole italiane, per esempio “biodegradabile” che a sentirla mi fa sentire male, invece certa gente del popolo, specialmente se incolta, evita di parlare in dialetto e preferisce parlare il brutto italiano della pubblicità e della televisione, perché non conosce che quello e per loro significa uscire dal vicolo, emanciparsi. È una questione sociale che non ha basi storiche, al contrario, prima nei palazzi dei vicoli c’era il piano nobile in cui viveva l’aristocratico, il signore, che parlava anche il napoletano, creando una mescolanza maggiore. Ora i signori stanno a via Petrarca, al Vomero, i borghesucci stanno a Fuorigrotta, mentre gli altri sono rimasti là. Ma questo vergognarsi di parlare in dialetto non corrisponde ad una riduzione dell’ignoranza, che invece dovrebbe avvenire con una trasformazione più armonica e regolare. L’ignoranza sta proprio nel rifiuto del dialetto, perché bisognerebbe parlaere bene l’italiano e il napoletano, e invece qua non si parla bene né l’uno né l’altro. Da una parte, la lingua materna ormai si apprende in un contesto sempre più ridotto ed esclusivo, dimezzandone quindi il vocabolario, mentre la lingua italiana è quella che trasmette la televisione, sempre più povera e monocorde.

Dopo gli spettacoli di Arrevuoto, qualcuno storceva il naso perché non aveva ascoltato in scena il dialetto del teatro napoletano.
Infatti quello era il modo in cui i ragazzi si esprimono naturalmente, senza che ci fossero stati aggiusti da parte del regista. Cosa ne pensi?

Non credo che esista una lingua ufficiale del teatro napoletano, chi dice questo dice una sciocchezza. Prendiamo i due esempi linguistici opposti: Raffaele Viviani ed Eduardo De Filippo. Tra le loro due qual è la lingua del teatro? Se leggi Viviani devi andare per intuito, la lingua di Eduardo invece è comprensibilissima, lui anzi la modificava volutamente. Già nell’800 nell’Ottocento esisteva una lingua borghese, quella di Scarpetta ad esempio, e contro di essa Viviani compì una vera rivoluzione. Scarpetta ed Eduardo, padre e figlio, parlavano una lingua tutto sommato borghese che è orecchiabile anche per chi non conosce il dialetto. Invece gli spettacoli di Viviani erano e sono ancora difficili da far girare in Italia, oggi poi la sua lingua è proprio fuori dal tempo, e se tu non ne conosci il contesto non la capisci. Viviani è diverso, lui stava proprio dentro il linguaggio del “popolo basso”, così come i poeti Giovanni Capurro e Ferdinando Russo.

Con gli anni, nella tua poesia, senti di aver avuto una trasformazione linguistica?

Per me, più o meno, il criterio è rimasto uguale, il fatto paradossale è che io ho scritto certe cose quasi nella lingua di Di Giacomo. Calcola che quando uscì Di Giacomo, Russo diceva che era una lingua inventata, una lingua letteraria, però intanto è la lingua che ha prevalso, cioè quella parlata a Napoli, forse ancora oggi, dalla maggior parte delle persone. Quella era la lingua più utilizzata ed io ho parlato la lingua che avevo imparato. In alcuni casi, per ragioni estetiche, ho usato un vocabolo antico, ma per lo più ho adoperato la lingua che si parlava.
Le mie canzoni, la mia lingua, la capiscono tutti quanti, la capiscono i ragazzi di Scampia e di ogni quartiere di Napoli, magari non la sanno parlare, la scrivono in un altro modo, però è la lingua napoletana che si parla ancora oggi. È una cosa che ho fatto automaticamente, perché ho avuto questa scuola, ho scritto la prima poesia a 7 anni e a 13 anni la prima canzone, attraverso la passione di mio padre per le canzoni, per il teatro, per la poesia. A casa nostra c’erano molti libri, mi ricordo che assieme al vocabolario italiano c’era il libro di Viviani “Tavolozza”, le poesie di Di Giacomo, ecceteratc. Poiché ho vissuto la mia infanzia e la mia adolescenza in luoghi popolari –- sono nato nel quartiere del Vasto e, a cinque, sei5-6 anni, mi sono trasferito con i miei nel Borgo S. Antonio Abate, nel cosiddetto Palazzo dei Bagni, poi nel vico Tutti i Santi, sempre da quelle parti –- e la lingua che parlavamo noi era più unificata, perché la usavano i ragazzi che andavano a scuola, il figlio del fruttivendolo, il medico che diceva la parolina napoletana, tutti. Magari, tra una zona e l’altra, cambiavano gli accenti, si inseriva una parola italiana o viceversa, però la lingua, i vocaboli, le parole, erano quelli, in tutte le zone e in tutti i contesti sociali. Con l’avvento della televisione sono accadute altre cose, perché il modello ha smesso di essere la famiglia dal punto di vista dell’informazione, dell’educazione, della cultura in senso lato, ma è diventato quello che appare sullo schermo.
Ho conservato un articolo di Pasolini del 1975 in cui scriveva che bisognava abolire la scuola dell’obbligo e la televisione. Voleva dire che il pericolo era proprio questo: che ciascuno perdesse la propria identità perché i modelli diventavano altri e naturalmente, questa tendenza, ha avuto un grande effetto anche sulla lingua.

Quali sono le caratteristiche e i limiti della lingua napoletana?

I limiti sono certamente dovuti al fatto che non ci sono tutti i vocaboli che esistono in italiano, ma anche la lingua italiana, a sua volta, ha dei limiti. Nel dialetto, se vuoi, abbiamo delle cose che sono più precise.
Quando avevo una rubrica su «Il Mattino» dedicata alla poesia e alla lingua napoletane, feci una notazione che mi sembrava molto interessante su avere ed essere. In napoletano non usiamo il verbo avere, lo usiamo solo come ausiliare, e questo mi sembra più preciso, perché se dici: « “Iio ho sonno»,” mica poi possiedi il sonno? In napoletano, tu dici tutt’al più: «“Mme moro ’e suonno»” oppure: «“Ttengo famme»”, è un “tengo” come quello degli spagnoli, cioè indica un possesso momentaneo, una sensazione, che risulta più precisa dell’espressione relativa in italiano. Si tratta di specificità che si sono costruite nei secoli, noi abbiamo preso da tutti, dagli arabi, dai francesi, dagli spagnoli, dal latino, dal tardo-latino, dal greco. Ed è un peccato che questa ricchezza vada perduta, che non si senta più da nessuna parte, che prevalga solo nella trasmissione di padre in figlio, che man mano che la gente si accultura, nel senso deteriore indicato da Pasolini, si prendano le cose in maniera superficiale, senza capirci niente.
La soluzione starebbe nel cercare di riscoprire il dialetto, di rivalutarlo, come noi proviamo a fare nelle scuole, anche se è una goccia nel mare. A scuola bisognerebbe insegnare anche il dialetto, altrimenti diventerà una lingua morta, una lingua letteraria. La canzone era un grande veicolo di apprendimento, ma prima riguardava tutti, le canzoni di Sergio Bruni erano ascoltate da ogni fascia sociale , oggi non è più così e certe nuove canzoni napoletane sono scritte in un pessimo dialetto.

Però, mi sembra che una fucina del napoletano siano oggi i giovani che vi riflettono il loro stile di vita o che recuperano molto espressioni antiche, tipo pariare per dire divertirsi.

I neologismi del dialetto vengono proprio dal linguaggio dei giovani, sono fatti gergali che magari non conosce nessuno, oppure sono riutilizzi di una parola presa da qualche parte e che è piaciuta, anche se l’origine di un termine è sempre una questione misteriosa. Ogni tanto viene fuori qualcosa, e questa è l’unica vivacità, un segnale di vita di questa lingua, cento termini muoiono ma almeno uno vive, anche se spesso sopravvivono i peggiori o vecchie parole con nuove accezioni.
Noi siamo esagerati e passionali, e quindi esageriamo anche con le espressioni, un milanese non direbbe mai: «“Mme moro ‘e friddo, ‘e famme», ecceteratc”. Il dialetto certamente rappresenta il popolo; in un mondo così globalizzato, americanizzato, si perde l’identità minuto per minuto, nella lingua, nelle abitudini, perché ci misuriamo con altri modelli, che ci vengono imposti dalla televisione e da un potere che non è che vuole imporre un modello culturale, vuole imporre un prodotto.
Siamo sopraffatti, attraverso i media e i film , da modelli di vita americani, probabilmente un ragazzo vede un film americano che usa espressioni non politicamente corrette e lui le converte in napoletano, perché non si ritrovano nella nostra cultura cose del genere.

Il napoletano è una lingua che oscilla senza mediazioni tra l’amore e la violenza, tra l’amore e la morte come tu hai scritto in “Carmela”.

La vita è questo: amore e morte, la natura, il sole che ti brucia e ti accarezza, il mare che può anche farti morire etc. Una lingua, se è buona, esprime la vita, quindi ha gli strumenti per descrivere questo e quello. Il resto è degrado, cose che fra cinque anni non esisteranno più.
Il napoletano è una lingua che inquadra la vita senza mediazioni, senza il “pare brutto”, senza il “parla bene a mammà”, il dialetto è viscerale, quando si dice lingua materna significa anche che è una lingua che viene dall’intestino, dall’utero, dalle viscere. Per esempio noi non diciamo: «“Tti amo»”, diciamo: «“Tte voglio bene assaie»”, anche se adesso si dice spesso «“Aamò»”, questa è una cosa nuova! Io ho molti amici giovani e anche meno giovani che, per esempio, alla fine di una telefonata dicono: «“Uun bacio»” anche tra uomini, e la prima volta che l’ho sentito mi è sembrato strano, ora lo dicono continuamente.

E in questi tempi così confusi, come vivi tu il fatto di essere un grande poeta dialettale? Di rifarti ad una tradizione così antica?

A Napoli, dovunque trovo degli ascoltatori, e mi meraviglio molto, questa lingua mia passa in un modo incredibile, li commuove, li ferisce, li offende, esalta più dell’italiano sicuramente. Quando hanno fatto l’ultimo recital alla libreria Feltrinelli, è vero che c’erano i fedeli, come li chiamava Sergio Bruni, quelli particolarmente sensibili, che però quando gli attori leggevano le poesie quasi si facevano venire le convulsioni. Ma perché? Perché questa è la lingua materna, la lingua viscerale, capace di esprimere sentimenti, che sta nel nostro DNA culturale e sentimentale.
Funziona anche tra i bambini, io ho tenuto degli incontri nelle scuole ai quartieri spagnoli e, una volta, un insegnante mi disse: “«Lei ha salvato questo ragazzo»”. E perché? Perché sapeva parlare solo napoletano, non andava bene a scuola e si sentiva inferiore agli altri. Quando però hanno iniziato a studiare il napoletano e a recitare le poesie, lui le recitava meglio di tutti, e quello è stato il volano che poi lo ha fatto migliorare anche nelle altre materie, perché si è sentito incoraggiato. Le cose più commoventi le dicono i giovani, una volta in questa scuola (l’Oberdan) portarono anche i più piccoli ad ascoltare le mie poesie, bambini di cinque anni. Io avevo scritto da poco un libro che si chiama “Napoli. Parole e poesie” proprio per le scuole, con una scansione di tipo didattico, e gli insegnanti l’avevano fatto studiare ai ragazzi. Alla fine della lettura, la maestra disse di salutare il maestro e poi aggiunse che io non ero un maestro come loro, ero un grande maestro. Poiché mi dava fastidio, ho scherzato, dicendo che l’insegnante diceva grande maestro per dire che ero vecchio, e allora si è alzata una bambina con il cuore in gola e mi ha detto: «“Per me tu non sei vecchio!»”, evidentemente l’avevo molto colpita con qualche parola che avevo letto. I bambini scrivono anche delle cose incredibili, magari non sanno scrivere bene ma sono gli unici che non usano gli stereotipi, che parlano con la loro lingua, che esprimono questo mondo. Una bambina una volta ha scritto di uno zingarello che va a chiedere l’elemosina ai passeggeri di una macchina, lei descriveva tutta la scena aggiungendo: «“Va vicino alla macchina, con la faccia di chi ha avuto troppi no»” e poi raccontava il rimorso che il ragazzino rimanesse al freddo al semaforo e loro restassero seduti al caldo in macchina. Tutto questo scritto in napoletano.
Ormai c’è una mediazione nell’espressione dei sentimenti diretti: pare brutto, parlo bene, parlo male, l’ho scritto bene, l’ho scritto male, e il cuore va a finire sempre più dietro, come in effetti accade oggi. Io non spiego mai le poesie nelle scuole, come puoi spiegarle?, Lo faccio fare ai ragazzi.
Ho sentito cose bellissime sulle poesie, una volta per esempio da parte di un ragazzo di sette, otto 7-8 anni che aveva fatto una riflessione incredibile, e l’aveva fatta perché quelle parole gli erano entrate dentro, gli erano entrati dentro i significati, e anche quando le leggeva si vedeva che erano cose che gli appartenevano, erano sue, infatti leggeva con una delle migliori dizioni che io abbia mai sentito, nell’intenzione.
La chiave è capire che non è vergognoso, ma per capirlo ci vuole un’autorità, per esempio un insegnante che lo dice, così da spiegarlo anche ai genitori. Inoltre bisogna dare i testi giusti, Di Giacomo ma anche testi più moderni scritti bene , quelli “acchiappano”. A Posillipo ho conosciuto i ragazzi peggiori di una scuola, avevano organizzato un laboratorio a cui i ragazzi bene non si erano iscritti e mi avevano chiamato forse per fare una recita, non ricordo. L’insegnante era mortificata perché facevano un casino tremendo, allora le ho chiesto quali erano i “capozzielli”, li ho presi e ho cominciato a parlargli in napoletano, chiedendogli se avevano capito cosa dovevamo fare. Li trattai malissimo dicendo che non sapevano parlare né italiano né napoletano, loro dicevano che invece non era così e allora ho cominciato a fargli dire e scrivere ‘o mare, ‘o cielo, e piano piano li ho conquistati. Allora siamo rientrati dove c’erano tutti gli altri e quelli, che si erano appassionati alla cosa, hanno iniziato a confrontarsi su come l’uno e l’altro parlavano in napoletano. Anche le madri e i padri devono capire che uno non è un fetente perché parla in napoletano, è fetente per altre ragioni. Non è vero che il dialetto napoletano è il simbolo di una condizione inferiore, di persone non scolarizzate, non è vero che: dialetto è uguale a vicolo.
La scuola è importante, però mi meraviglio come i maestri di strada non abbiano capito che una delle cose importanti da utilizzare è proprio il dialetto. Non è il discorso della conoscenza in quanto nozionismo, è un fatto di cuore, attraverso la lingua si arriva al cuore, ai sentimenti, ma non in senso banale, anche nel senso della rabbia, della collera.
Ho avuto una grande soddisfazione a Casal di Principe. Pina Cipriani, che è di Casal di Principe, ha ripreso una mia canzone degli anni Ottanta’80: “Maronna mia” in un suo recital di canzoni sacre e questa canzone è entrata nella liturgia di una chiesa lì, hanno fatto la messa cantata con il cardinale Sepe e invece di cantare: «“Ti adoriamo»” cantavano: «Miettece ‘a mana toia, Maronna mia». Mi raccontava il prete di questa chiesa, che invece dell’Ave Maria lì si canta: «Odio e arraggia attuorno a nuie/ scorre ‘o sanghe ‘mmiez’ ‘e vvie:/ miettece a mana toia, maronna mia».
Allora il dialetto arriva, arriva a questi qua, che si sentono più coinvolti da queste parole anziché dal solito «T’adoriamo», me l’ha detto questo prete coraggioso che sta a Casale.

Per te il dialetto in questa città può essere uno strumento di pedagogia? Almeno per una fascia che non è raggiunta dalle istituzioni in maniera efficace?

Per tutte le fasce, specialmente per loro, perché se pensi a quel ragazzo che ti dicevo, quello è andato a scavare dentro di sé e ha trovato l’orgoglio della sua lingua che esprimeva non dico cultura, ma almeno sentimenti, l’ammirazione degli altri per aver recitato bene, cioè tutta una serie di cose che lo rendevano più forte. Prima non ce n’era bisogno, il dialetto era la lingua predominante. Ma certamente canzoni, poesia, teatro in dialetto, hanno avuto una grande funzione pedagogica. Io ho scritto in un libro sulla poesia napoletana due cose: la prima è che tutti i poeti napoletani, fino agli anni Cinquanta’50 più o meno, hanno scritto solo in dialetto, perché era la lingua della poesia. Il romanzo di Napoli, attraverso le canzoni, la poesia e il teatro, è statoi scrittoi in dialetto.
La seconda cosa è che attraverso le canzoni, almeno un filo di poesia è arrivato alla gente, ci sono alcune canzoni che sono state per la gente del popolo come i versetti della Bibbia. Per molti le uniche musiche conosciute erano quelle delle canzoni napoletane, e le uniche espressioni letterarie erano contenute nelle canzoni napoletane. Più pedagogico di questo?
Dire , come facevano negli anni cinquanta alcuni intellettuali di sinistra che “i locali cantori” hanno inguaiato Napoli perché con le canzoni hanno calmato i napoletani invece di fargli fare le rivoluzioni, oltre che essere un’esagerazione mi sembra una sciocchezza.

Prima secondo te esisteva un senso di responsabilità degli autori che scrivevano canzoni e poesie per il popolo napoletano?

La canzone, la poesia dialettale, è popolare per definizione. Detto questo cosa c’è da aggiungere? C’è questa grande diatriba tra i secentisti, quelli che sono per la grande lingua letteraria antica di Giulio Cesare Cortese e invece quelli come me, Alberto Consiglio, i digiacomiani, che dicono che tutto è cominciato nell’800, perché quella del ‘600 è una lingua falsa, letteraria. Se tu leggi Cortese, che pure è un grande poeta, leggi di “egloghe”, di “Parnasi”, di “damme” ma uno che sta per strada mica sa cos’è l’egloga ! Quelli come lui facevano una parodia in napoletano della letteratura del loro tempo. La vera lingua è quella che è venuta fuori, sedimentando nel popolo, dal Cinquecento‘500 in poi.
Salvatore Di Giacomo era un grande poeta lirico ma anche un grande studioso, che ha avuto la fortuna di elaborare moltissimo materiale, e così i versi delle sue canzoni li ritrovi in molti canti popolari. Negli anni ’50 Gino Paoli scoprì un canto popolare napoletano, scrisse la musica e la fece cantare a Ranieri, ne venne fuori una canzone che conteneva i sentimenti profondi del cuore napoletano, perché erano già dentro quei versi e Paoli li aveva musicati bene. Ma anche i sentimenti di rabbia, quelli contro il potere, appartengono al cuore napoletano e se si perde l’identità, si perde la capacità di trovare i sentimenti.

Un cosa straordinaria in Arrevuoto è stata che, lasciando scavare i ragazzi nel loro immaginario, dopo uno strato composto della solita cultura di massa, si è arrivati alla tradizione della commedia atellana, agli Osci, ma anche a Viviani, a Totò.

Perché dentro il loro sangue c’è questo, però andrebbe guidato, organizzato, perché può pure essere che tra questi ragazzi ci sia un grande talento ma che un giorno diventerà un mediocre poeta o drammaturgo. Per questo bisogna imparare a leggere e a scrivere, ad acquisire degli strumenti facendo teatro o un’altra cosa. La conoscenza fa bene a tutto, ma i ragazzi non possono imparare da soli, in maniera troppo naif, anche se però quella cultura ce l’hanno dentro. Quando a scuola gli porti dei libri di poesie e gli mostri come gli autori napoletani scrivevano del Natale o delle Quattro Giornate, allora i ragazzi capiscono come si è fatta la loro lingua. Io credo che bisogna fare un’operazione di insegnamento della lingua napoletana, ma in modo coinvolgente. Bisogna provare con la poesia, la poesia è più immediata. Come fanno a non capire Viviani o Ferdinando Russo? La poesia fa più sintesi del teatro, esprime la rabbia, il dolore, l’amore in maniera più immediata perché arriva in due minuti ai ragazzi. Ma è necessario anche che poi le scrivano da soli.,

Ttre anni fa un bambino dei Quartieri Spagnoli ha scritto una poesia sulla sua sofferenza di vedere quello che accade intorno a lui: lo spaccio, le rapine. Ad un certo punto ha scritto: «Le guardie fanno finta ‘e nun verè e se ne vanno», cioè diceva la verità senza peli sulla lingua.

marzo 2009